Giovanni Sesana

Giovanni Sesana (1828-1867), originario di San Giovanni alla Castagna (Lecco). Partì nel 1855 con la prima spedizione PIME per il Bengala Centrale, e vi profuse 12 anni di indefesso impegno.

Giovanni iniziò a lavorare a nove anni nell’officina di fabbro ferraio del padre sino a 24 anni, quando decide di entrare nell’istituto si San Calocero per le Missioni Estere di Milano. A 27 anni, il 19 febbraio del 1855, lascia l’Italia per il Bengala centrale e precisamente per la missione di Krishnagar dove vengono aperti una scuola per ragazze assistite da donne bengalesi e un orfanotrofio per ragazzi, seguiti da Giovanni:

Alle otto faccio scuola di bengalese ai ragazzi, fino alle undici, poi do una mano a qualche lavoro e nello stesso tempo attendo anche ai ragazzi. A mezzogiorno Angelus Domini in comune. Alle due scuola, come sopra, fino alle quattro, indi pranzo. Dopo pranzo fin sera ora lavoro, ora leggo qualche libro. Appena arriva sera, orazioni ed esame di coscienza in comune, poi un giorno sì l’altro no faccio il catechismo”. Nelle lettere che inviava in Italia Giovanni raccontava la solidarietà che teneva unito il gruppo missionario, ma anche la solitudine che sentiva facendo il catechista in un contesto in cui l’inserimento era lento e pieno di insidie: “Io mi trovo in ottima salute benché un po’ scoraggiato, trovandomi solo nella mia categoria senza poter cambiare parole con alcuno. Del resto sono contentissimo e mi trovo in buona armonia coi buoni missionari… Se lo può immaginare un povero figlio che sempre ha amato la società, trovandosi solo soletto, del resto non ho di che lamentarmi: i buoni missionari mi amano qual loro caro fratello... I giorni passano lavorando ora in cucina, osservando come vanno le cose, ora in chiesa, o al Bazar, il restante del giorno un poco l’ago, il martello, la penna… Attendo molto coi missionari allo studio della lingua hindi… vado già al Bazar, a comprare, parlo col cuoco delle faccende di cucina… Nei primi giorni ero alquanto turbato, il perché era lo straordinario cambiamento di molte cose, di luoghi, costumi, lingua, non sapendo dir parola se non coi missionari, ma ormai queste (cose) piccolezze sono passate”.

Nel passare degli anni gli alunni e le alunne delle scuole-orfanotrofio ricevono il battesimo e cominciano a formare famiglie cristiane. Inoltre molti credenti, che si erano orientati verso i protestanti perché rimasti senza sacerdote per lunghi anni, ritornano alla missione cattolica. Il popolo non faceva distinzione fra cattolici e protestanti, ma i pregiudizi diffusi contro i protestanti (giunti in questa regione 30-40 anni prima dei missionari del PIME) danneggiavano molto anche i cattolici. La propaganda anticristiana faceva da sfondo al conflitto tra le due missioni, che non nasceva da divergenze dottrinali, bensì consisteva in diversi metodi operativi che non si potevano conciliare All’inizio di quell’anno alcuni protestanti vennero dal missionario per chiedergli se fosse stato disponibile ad aprire e gestire una scuola nella loro zona, presso il villaggio di Daerenapore, nella quale avrebbero mandato i figli. Giovanni giudicò quella richiesta una buona occasione per rasserenare gli animi, fino però ad accorgersi che in realtà si trattava di un trabocchetto, in quanto il vero fine dei protestanti era di non pagare dei debiti ai loro correligionari. Quando scoprì l’inganno era già troppo tardi. I protestanti giunsero a capovolgergli la barca su cui trasportava il materiale per la costruzione della scuola e a rifiutarsi di fornirgli l’acqua del fiume, che doveva essere attinta di soppiatto. Malgrado tutti i boicottaggi subiti, egli mise comunque in piedi una comunità cristiana di 22 ragazzi e 25 ragazze, una vera enclave all’interno di un territorio controllato dai protestanti. Durante l’emergenza, per l’intera comunità di Daerenapore, Giovanni diventò ancora di più il loro “ciota saeb”, che in bengalese significa “piccolo padrone”, imparando a fare un po’ di tutto: medico, farmacista, infermiere ed economo. Attraverso questa esperienza a contatto diretto con la popolazione, prese coscienza altresì di una piaga sociale molto comune in Bengala, e in tutta l’India, ossia l’infanticidio. Inondazioni, cicloni, terremoti, pestilenze, carestie e fame seminavano senza tregua la morte, a tal punto che si temeva che i decessi superassero le nascite. Una notevole porzione delle scarse risorse finanziarie della missione era utilizzata per ricostruire le abitazioni e le chiese distrutte e per dare da mangiare ai poveri. Un elemento di ulteriore preoccupazione era la mancanza di personale da mandare in missione, nonché le tante morti premature. L’arrivo di padre De Conti era stato dunque per Giovanni una vera consolazione e si rivelò un forte supporto, in quanto da solo non riusciva a fare tutto e la solitudine stava diventando una tenaglia insopportabile. Quando padre De Conti arrivò a Daerenapore, il giovane missionario aveva appena superato una crisi d’identità che lo trascinò sull’orlo di un abisso di depressione e paura a causa di tutte le difficoltà incontrate. Nel periodo successivo, dopo il periodo di una epidemia di colera, Giovanni fu trasferito insieme a padre De Conti nel villaggio di Fulbarry. La nuova stazione missionaria era meno comoda perché mancava di tutto, bisognava mandare a prendere anche il pane una volta la settimana a Krishnagar, situata a quindici miglia di distanza. A Fulbarry rimasero fino all’ottobre del 1862, dopodiché Giovanni fu chiamato a prendere servizio nel distretto di Jessore, con la mansione di catechista e di amministratore della missione. Con i catechisti indigeni andava nei piccoli villaggi, addestrava gli orfani nel laboratorio di falegnameria e li preparava al battesimo e alla prima comunione. Con loro lavorava sodo, ma la sera si faceva sempre festa, poi nei periodi di carestia battezzava i bambini che certamente sarebbero periti. Per meglio attirare i giovani, progettò di formare una piccola banda musicale, infatti tra le varie richieste che presentò ai superiori “di fazzoletti di tela per il naso e un diamante per tagliare il vetro”, inserì anche “un manuale semplice da consultare per imparare a suonare il violino”. Nei primi giorni di febbraio del 1867, dopo solo 12 anni di missione, si ammalò gravemente per una forte infiammazione al fegato che investì anche la milza. Non volle farsi curare da un medico inglese e preferendo la medicina indiana si sentì meglio, riprese a mangiare e a passeggiare. Tentò perfino un viaggio a Fulbarry per riabbracciare un suo figlioccio di nome Lorenzo, che aveva però nel frattempo lasciato l’orfanotrofio per seguire i protestanti. Troppo tardi..

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