padre Cesare Colombo

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LE ORIGINI

Nasce nella casa al numero 10 di Via Paolino dei Morti, in Acquate, Lecco, la sera del 30 marzo 1910 da Antonia Pozzi e Bernardo Colombo, che già avevano tre figli: Diletta, Carolina e Maria. Tre giorni dopo viene battezzato dal parroco Don Giovanni Piatti. Fin da bambino, Cesare manifesta la sua indole avventurosa, vivendo a diretto contatto con la natura e la montagna. E’ infatti un bambino allegro e vivace come tutti i bambini: frequenta la scuola con profitto e spesso lo si vede giocare per le vie del paese con i suoi compagni, ma davanti a sé vede una strada che si discosta dalla loro. Se ne leggono già dei piccoli indizi nell’atmosfera piena di religiosità che respira in famiglia e nell’amicizia che lo lega al suo parroco.

LA VOCAZIONE

Riconosce la propria vocazione missionaria già a dodici anni, ed entra in seminario per frequentare le cinque classi ginnasiali. Solo al termine del ginnasio informa i genitori della sua decisione di farsi missionario. Il 23 maggio 1933 muore papà Bernardo ed esattamente quattro mesi dopo Cesare è ordinato sacerdote del P.I.M.E. , ma non parte subito per la terra di missione. Per alcuni anni sarà insegnante di matematica presso il seminario del P.I.M.E. di Treviso. Quando nel 1935 arriva una richiesta di personale dalla Birmania, padre Cesare si rende subito disponibile e, dopo un ultimo saluto agli acquatesi, un commosso abbraccio alla mamma e alle sorelle, una preghiera sulla tomba del padre, parte per Kengtung, Birmania, dove giunge nel 1936. In quella città esisteva già un lebbrosario dove padre Cesare si reca spesso a celebrarvi la Messa e a visitare quegli infelici che aspettavano solo la morte in sofferenza e solitudine.

LA PRIGIONIA

A causa delle vicende legate alla seconda guerra mondiale, viene internato in India dagli inglesi che temevano un’invasione della Birmania da parte dei giapponesi e fortunatamente qui trova la possibilità di frequentare dei corsi di medicina, tenuti da medici europei internati negli stessi campi. Ha così modo di approfondire le caratteristiche della lebbra e i suoi vari metodi di cura. Anche nella prigionia pensa sempre infatti ai lebbrosi che ha incontrato a Kengtung e al modo per alleviare le loro sofferenze.. Qui perfeziona anche la sua conoscenza della lingua inglese ed apprende altre importanti nozioni mediche utili per un missionario. Nel 1945 il corso della guerra cambia e, dopo la sconfitta dei Giapponesi, nel mese di giugno dello stesso anno ottiene il permesso di ritornare nel suo villaggio birmano, dove ancora lo aspettano i suoi lebbrosi. IL LEBBROSARIO Senza perdersi d’animo, inizia subito una intensa attività medica e logistica per dare ai lebbrosi una prima assistenza, sfruttando al meglio anche il materiale militare abbandonato, grazie al quale riesce addirittura a dotarsi di una Jeep che diventerà un provvidenziale mezzo per l’approvvigionamento dei viveri e delle sementi di riso. Con le sue mani inizia a modellare mattoni per dare case alle famiglie che vuole assistere. Si fa artigiano, falegname, idraulico e scavatore di pozzi, non risparmia sforzi per dare ai suoi assistiti il meglio di quanto può. La voce si diffonde molto velocemente: arrivano ben presto malati da tutta la regione e con loro arrivano grandi problemi sanitari, logistici ed economici. Decide di tornare in Italia, a Lecco, sua città natale, dove si ferma giusto il tempo necessario per conseguire la laurea in medicina. Sono gli anni 1953-1954. Nel 1956 partecipa a Roma ad un importante congresso internazionale sulla lebbra e, al suo ritorno in Birmania, trova un’equipe cinematografica diretta dal regista americano William Deneen incaricata di girare un documentario che mostri l’opera dei missionari, in particolar modo il suo lavoro coi lebbrosi. Questo primo documentario si intitolerà, in italiano, “Lebbrosa”, mentre il titolo originario è “The touch of his hand” e verrà proiettato in molti ambienti cattolici, favorendo una significativa raccolta di aiuti e di fondi. Dagli USA arrivano ben 15000 dollari che permettono a padre Cesare di proseguire speditamente la costruzione di un ospedale. Il film ottiene anche il primo premio al Festival cinematografico di Lille nel 1958. Quando il regista ritorna nel 1962 per filmare un altro documentario, trova una situazione molto cambiata in meglio, trova persone entusiaste della vita, che lavorano e vengono curate con amore; allora intitolerà questa nuova sua opera ”La città felice”.

IL RITORNO

Purtroppo alla fine del 1966 padre Cesare deve lasciare la Birmania. Nel frattempo la situazione politica è cambiata ed il nuovo governo non gli concede il permesso di rimanere. Anche in Italia continua a prestare opera di sacerdote e medico nel reparto dei lebbrosi presso l’ospedale genovese “S.Martino”. Poi, per sei anni è rettore della casa del P.I.M.E. di Rancio da dove continua ad interessarsi dei suoi lebbrosi e a raccogliere fondi a loro beneficio attraverso mille iniziative, incontri e conferenze persino negli Stati Uniti. In questo periodo cresce l’amicizia operosa che già lo univa a Don Aldo Cattaneo, ideatore ed animatore del “LABORATORIO MISSIONARIO DI LECCO” , una benefica organizzazione che ancor oggi aiuta i missionari lecchesi sparsi nei vari paesi del mondo. Da questa loro amicizia è scaturita per la prima volta l’idea delle “ADOZIONI A DISTANZA”: un intelligente metodo di aiuto e sostegno nei confronti dei bambini più poveri. Anche presso il Laboratorio Missionario di Lecco prosegue questo tipo di attività che non si è mai interrotta fin dal giorno in cui Padre Cesare e Don Aldo l’hanno concepita ed attuata. TESTIMONE DI CRISTO Padre Cesare muore a Rancio, presso la casa del P.I.M.E. il 13 ottobre 1980 e le sue spoglie riposano nella tomba di famiglia presso il cimitero di Acquate. Egli può essere annoverato, con buona ragione, tra quanti hanno lasciato un segno non solamente nella storia del suo paese natale -Acquate- ma addirittura nella storia della Chiesa per la sua santità di vita, tutta consumata e dedicata a testimoniare la fede e la carità Evangelica. Nel suo testamento ha lasciato scritto: “Se dovessi rinascere vorrei essere ancora prete, missionario del PIME, andare tra i pagani, istruire e battezzare senza esclusione di mezzi, ma nella totalità dell’amore umano e divino”.

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Edito da Youcanprint.it

Nel mondo di oggi non ci sono solo i martiri uccisi dalla violenza fondamentalista. A un missionario può capitare di morire anche in un Paese cattolicissimo e per un altro motivo: la difesa dei diritti degli ultimi. È la storia di padre Fausto Tentorio, missionario del Pime, ucciso nelle Filippine il 17 ottobre 2011 a causa del suo impegno a fianco dei manobo, la locale popolazione tribale.

Martire per la giustizia, ma – nello stesso tempo – martire di una periferia dimenticata del mondo di oggi, dove in nome della sete di materie prime dell’economia globale si continua a uccidere chi, schierandosi dalla parte dei poveri, “crea problemi”. Questo libro racconta la storia di padre Fausto e le tante opere che ha lasciato dietro di sé nell’Arakan Valley.

Il sogno di un missionario che ha dato la vita per nutrire la sua gente. Fausto Tentorio, missionario del Pime originario di Santa Maria Hoè (Lecco), ha svolto per oltre trent’anni il suo ministero nelle Filippine al servizio dei più poveri. Ha difeso i diritti dei manobo, la popolazione tribale originaria dell’Arakan Valley, la cui sopravvivenza è minacciata oggi da interessi economici e conflitti sulla terra. Il 17 ottobre 2011 – a 59 anni – è stato ucciso da un killer davanti alla sua parrocchia. Ma le scuole e le tante altre iniziative da lui fondate ne continuano l’opera.

Giorgio Bernardelli è giornalista di Mondo e Missione e dei media del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere). Collabora con numerose testate tra cui il quotidiano Avvenire, il portale internazionale di informazione religiosa Vatican Insider e la Radio Vaticana.