Sulla vecchiaia e sulla sofferenza, di Gian Paolo Di Raimondo

Disse papa Francesco nel messaggio ai partecipanti all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita del 20 febbraio scorso: "Una società è veramente accogliente nei confronti della vita quando riconosce che essa è preziosa anche nell’anzianità, nella disabilità, nella malattia grave e persino quando si sta spegnendo; quando insegna che la chiamata alla realizzazione umana non esclude la sofferenza, anzi, insegna a vedere nella persona malata e sofferente un dono per l’intera comunità, una presenza che chiama alla solidarietà e alla responsabilità. È questo il Vangelo della vita che, attraverso la vostra competenza scientifica e professionale e sostenuti dalla Grazia, siete chiamati a diffondere". Purtroppo la società moderna in generale trascura del tutto anche in questo campo il “Vangelo della vita” cui si riferisce il Papa. Superata la famiglia patriarcale dove si accompagnava il vecchio al trapasso con l’amore delle nuove generazioni presenti, la vecchiaia e la sofferenza sono considerati impedimenti all’attuale ritmo di una società troppo indaffarata che rifiuta gli impegni dei vincoli affettivi, che non vuole ulteriori pensieri.

Le famiglie sono gravate da oneri faticosamente superabili che, il più delle volte non riescono, ma a volte pure non vogliono, onorare questo “Vangelo della vita” riferito alla solidarietà e alla responsabilità che la società dovrebbe riservare ai vecchi e ai malati. Così si attua comunemente il sistema del parcheggio: i vecchi si parcheggiano nei cronicari – più delicatamente – chiamati “case di riposo” e i malati terminali negli hospice. E pensare che i vecchi non vorrebbero riposare in attesa della morte ma spendere, nei limiti delle loro forze affievolite, il tratto di vita rimanente assieme ai loro cari. E i malati, anche loro, vorrebbero spegnersi stringendo la mano di una persona di famiglia e non in una fredda camera di un ricovero per ammalati terminali. Scrive Enzo Bianchi su “Il pane di ieri” nel capitolo “nascere e morire in comunione”: Ma come la nascita e la festa avvenivano in casa, nel quotidiano, così anche la morte era parte di quell’unico flusso vitale e familiare. Morire a casa propria era il desiderio del malato e dei parenti che tutto predisponevano a tal fine. Oggi, al contrario, la maggior parte delle persone muore in ospedale o al ricovero e tutto concorre affinché il malato concluda nell’estraneità di un luogo “altro” un’esistenza che sovente ha faticato a trovare un “focolare” attorno al quale edificarsi.

Eppure, mentre ciascuno nasce senza averlo imparato, a morire si impara, e si impara soprattutto vedendo altri morire nella quotidianità, in comunione e nella pace. Allora il tempo ha peggiorato il modo di rapportarci con la vecchiaia, la malattia e la morte? Noi cristiani dove abbiamo relegato gli insegnamenti evangelici? I nostri antenati certamente meno istruiti di noi, ma senz’altro più saggi, dicevano che non di solo pane vive l’uomo [come aveva insegnato Gesù Cristo ndr], vive dello scambio continuo non solo di materia (il metabolismo), ma anche di informazione (comunicazione). E’ ovvio, quindi, che per mantenere viva l’intelligenza dell’anziano bisogna nutrirlo d’informazione affettiva. Solo un corpo in relazione è una persona fino alla morte: eliminandogli la relazione, l’anziano muore come persona prima che come struttura corporea. Simone de Beauvoir nella sua opera “La terza età” del 1970, ritenuta un caposaldo della letteratura moderna sulla vecchiaia, affronta con un approccio antropologico-storico la condizione della vecchiaia, approfondendo due punti di vista: quello esteriore, cioè come la vecchiaia si presenta agli altri, e quello interiore, cioè il modo in cui la vecchiaia è assunta dal soggetto che la vive. Nella prima parte viene esposta un’analisi dettagliata della vecchiaia come fenomeno biologico con conseguenze psicologiche, e come fenomeno sociale, cioè l’autrice esamina quale ruolo l’anziano ricopra di volta in volta nelle società primitive, storiche e contemporanee.

Nella seconda parte dell’opera considera la vecchiaia come fenomeno che ha una sua propria dimensione esistenziale; quindi cerca di descrivere come l’uomo anziano introietti il suo rapporto col proprio corpo, col tempo e con gli altri. Nota l’autrice: “Una desolata enumerazione delle infermità della vecchiaia la ritroveremo in tutti i tempi, ed è importante sottolineare come questo tema (nelle opere letterarie) sia ricorrente. Anche se il significato e il valore che vengono attribuiti alla vecchiaia variano tra una società e l’altra, cionondimeno essa rimane un fatto extrastorico che suscita un certo numero di reazioni identiche”. Anche se non si vuole condividere quello che pensa papa Francesco della vecchiaia: “La vecchiaia è la sede della sapienza della vita”, non si può disconoscere, però, che gli anziani possono collaborare con i più giovani in modo costruttivo per migliorare la qualità della vita. L’esperienza quasi sempre è determinante per avviare proficuamente i processi di rinnovamento, evitare che si ripetano per esempio, gli errori del passato. Va bene creare nuove classi dirigenti di giovani, ma non dimentichiamoci dei vecchi, teniamoli in vita amandoli e utilizzandoli. Diceva Gabriel Garcia Marquez: “Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con la dimenticanza”, sono d’accordo, ma con una piccola variazione, lo insegnerei ai giovani, i vecchi già lo sanno!

Un capitolo a parte sarebbe necessario aprirlo sulla malattia e la sofferenza. Sono estremamente convinto che bisogna alleviare, con le terapie adeguate, il dolore scatenato dalle malattie inguaribili; le più recenti ricerche intorno a fine-vita e problemi bioetici annessi evidenziano che il desiderio di morte che caratterizza il dolore totale di molte patologie terminali può essere gestito e ridotto grazie alla palliazione. Tale tipo di cura, infatti, volta non all’impossibile ripristino della salute ma alla riduzione dell’intollerabilità del dolore, permette di restituire, in misura diversa a seconda della patologia e del suo stadio, una qual forma di “benessere” al sofferente. L’eliminazione o la riduzione dell’insostenibilità del dolore riduce altresì la volontà di porre termine alla vita e dunque le richieste di eutanasia.